Epame ston à Commà - da Carbieno a Carpignano 2023

Anticamente sull'asse viario della Traiana-Calabra (oggi tratto della via Francigena), sorgeva il casale medievale di Carbieno, che nel suo periodo di maggior splendore veniva usato come ultimo punto di posta prima di Otranto. Luogo di viandanti e pellegrini, che sostavano in questo luogo per riposarsi dalla fatiche del viaggio e trovavano conforto spirituale nella piccola Chiesa dedicata a SS. Medici.

I Santi Cosma e Damiano erano gemelli e cristiani. Nati in Arabia, si dedicarono alla cura dei malati dopo aver studiato l'arte medica in Siria. Ma erano medici speciali, Spinti da un'ispirazione superiore infatti non si facevano pagare. Di qui il soprannome di anàrgiri (termine greco che significa «senza argento», «senza denaro»). Ma questa attenzione ai malati era anche uno strumento efficacissimo di apostolato. Una missione che costò la vita ai due fratelli, i quali vennero martirizzati durante il regno dell'imperatore Diocleziano, intorno al 303 d.C. per decapitazione.

Le fonti sulla vita dei Santi Cosma e Damiano non sono pienamente concordanti tra loro, pur avendo molti aspetti comuni, riportano tre diverse tradizioni: una tradizione "asiatica", originatasi a Costantinopoli, capitale dell'impero bizantino; una tradizione "romana" affermatasi soprattutto in Siria; una tradizione "araba", che però si diffuse soprattutto nell'Europa occidentale (Roma).

Le tre tradizioni della loro vita furono inoltre inserite nel contesto dei libri liturgici greci, e ad ogni tradizione fu indicato il giorno festivo specifico: alla tradizione "Asiatica" il 1º novembre. Alla tradizione "Romana" il 1º luglio. Alla tradizione Arabica il 17 ottobre.
La tradizione cattolica, invece, stabilì la memoria liturgica il 27 settembre (probabilmente il giorno della decapitazione), successivamente spostata al 26 settembre da Paolo VI, rendendone il culto facoltativo. 

In due di queste date, il 1° luglio e il 1° novembre, con l'aggiunta di una terza, la prima domenica di quaresima, si svolgevano delle fiere presso il casale di Carbieno, nate con la ripresa economica del basso Medioevo (dopo l'anno 1000). Così la piccola Chiesa dei Ss Medici, diventò un luogo di culto visitato, con l'occasione dei commerci, da migliaia di contadini e commercianti.      

"Epame ston à Commà" (sciamu a Santu Cosimu), dicevano i contadini e commercianti dell'area Grika, appuntamenti molto importanti per la vita della prima metà del secondo millennio. Come per tutte le fiere i commercianti andavano il giorno prima con "traini e sciarrette", la sera mangiavano sul posto all'aperto,  suonavano e cantavano insieme. Ma pian piano le fiere diventarono sempre meno necessarie, e di tre, rimase solo quella del 1° Novembre. Dalla seconda metà del XVII secolo, quando il casale fu abbandonato perché la via Traiana-calabra era ormai caduta in disuso, la fiera fu spostata gradualmente nel vicino paese di Carpignano e prese il nome di Fiera Ognissanti.

Ancora oggi la tradizione millenaria si ripete, nonostante le fiere non siano più una necessità per l'economia. I Ss. Cosma e Damiano, sono considerati dai carpignanesi i secondi protettori del paese.  Noi, con l'essenziale collaborazione della Pro-loco di Carpignano e col supporto dell'amministrazione comunale di Carpignano, vogliamo rammentare l'importanza di queste tradizioni con una passeggiata storico-devozionale, cavalli, carri, sciarrette, birocci e delle ronde di pizzica, l'espressione più vera della cultura popolare.

Antonio D'Ostuni per Officine culturali

I racconti scritti a mano, di Egidio Catullo

Un libro nato dalla passione per le tradizioni popolari, una serie di incontri con Egidio, corredate da racconti di esperienze vissute durante una vita passata a inseguire queste sue passioni ha fatto nascere l'idea di una pubblicazione, che ci ha impegnanti per più di un anno.

Una raccolta di storie che si alternano tra esperienze personali e tradizione orale aprono una finestra su un Salento che non c'è più.
L' autore, con la certezza che ciò possa ancora insegnare tanto, enfatizza la lavorazione dell'olio nei frantoi ipogei e gli orologi da torre, sua vera passione, meccanismi che hanno organizzato la vita di quei lavoratori.
 

NON CHIAMATELA DANZA

Usate spesso come sinonimi le parole ballo e danza celano delle differenze.

-La parola danza deriva dal termine francese "dancier", poi "danser". A sua volta la parola francese la si può far risalire al "dintjan" del dialetto francone, che vuol dire “muoversi di qua e di là”. Un’altra origine etimologica è quella latina che riprende il verbo "abantiare" = venire avanti.
Ballo, deriva dal greco ballìzen. “tripudiare”, e bàllein, che si richiama a "pΰllein" col significato di “lanciare, scuotere”. 
Già dalle definizioni etimologiche si può notare una sostanziale differenza. La danza sottende a un criterio di ordine e premeditazione, c’è la volontà di organizzare il movimento del corpo a tal punto da farlo diventare linguaggio, comunicazione, spiritualità, estetica, arte. La danza è quindi forma d’arte del corpo che impara a conoscere se stesso e interagisce con lo spazio, l’aria, la musica, la gravità in base a un ritmo dato e secondo figure prestabilite.
Il ballo sembra essere nato più da “scuotimenti” del corpo che da leggiadria, come a voler liberare l’istinto dalle costrizioni mentali, tanto che diventa il termine specifico per i baccanali, dove la trasgressione si trasforma in liceità sessuale. Per estensione quindi il ballo ha più a che fare con l’ebbrezza, il caos, il piacere di sentirsi in sintonia col proprio corpo, senza che abbia necessariamente una finalità rappresentativa. Il ballo così tende ad essere un’esperienza fisica e può essere del singolo, ma anche di coppia-*.

La nostra "pizzica pizzica", come tutte le azioni coreutiche appartenti al popolo, è un ballo (gli esecutori si chiamano "ballatori" sia al maschile che al femminile), in quanto ha più a che fare con la ricerca della libertà dalle costrizioni mentali dettate dalla società di appartenenza, che nel Salento era fortemente patriarcale e dettava delle rigide regole da osservare per "l'onore" e di conseguenza la rispettabilità della famiglia di appartenenza. 
Anche se già dal XVIII sec. venne definita "contraddanza"  (un tipo di danza inglese che si svolge a schiere contrapposte), da Andrea Pigonati (1734-1790), tenente colonnello del Genio Militare dell’esercito borbonico, incaricato per i lavori di bonifica del porto di Brindisi, nella sua "Lettera sul Tarantismo", diretta all’abate Angelo Vecchi, fu, dapprima, pubblicata nel 1779 negli Opuscoli scelti sulle Scienze e sulle Arti, a cura di Carlo Amoretti e Francesco Soave, anticipando di oltre un ventennio, quella che viene considerata la prima menzione scritta della "pizzica-pizzica", ossia quella osservata dal Re Ferdinando IV di Borbone nella primavera del 1797, anche qui considerata danza. Venne definita "danza" perché si pensava in un'espressione ordinata e organizzata, curata ed insegnata con rigore accademico, senza sapere che veniva dal popolo e veniva usata dallo stesso per una ricerca di libertà dai canoni sociali.

Questo è valido per il ballo eseguito nelle feste private o nelle ronde in piazza. Per quanto riguarda la parte spettacolarizzata, che da un ventennio in qua si è manifestato con gruppi "professionisti", i quali hanno aggiunto ai loro spettacoli musicali, delle ragazze, prendendole tra quelle che studiavano il fenomeno, rendendoli. Ecco quella, da quanto emerso dal dibattito suscitato dalla prima parte di questo articolo, sembrerebbe una forma più vicina alla danza. Massimiliano Morabito afferma che i nostri contadini chiamavano la pizzica pizzica "ballo", poi però le cose cambiano e prendono nuove forme e significato, c'è stato l'avvento di forme performative e una nuova funzione ludica, che ha cambiato l'uso del ballo originario. È difficile far comprendere la differenza alla gente che ama ballare, ma, a mio avviso bisogna iniziare ad usare i termini corretti in modo tale da differenziare le varie forme del ballo. 
Io rimango del parere: Non chiamiamo la "pizzica-pizzica" danza!

*Tratto da "Istituto Italiano Arte Danza"

Antonio D'Ostuni

Il 3 Agosto a Carpignano

"La tarantella di Hölderlin" di Klaus Voswinckel, Itinerarti 2023

Il protagonista si muove fra paesi interni e masserie, feste e interpreti del mondo musicale salentino, descritti con molto realismo, con una attenzione particolare al fenomeno del tarantismo, che come per tanti illustri predecessori, continua ad esercitare sul regista un ascendente irresistibile, che lo porta a indagare fra i resti della sua memoria nel Salento contemporaneo: emblematica è la visita a Galatina e alla cappella di San Paolo dove un tempo convergevano i tarantolati e le tarantolate da tutta la provincia per implorare, dopo avere esperito la “terapia” a base di musiche e balli nei loro luoghi di origine, la liberazione dal veleno e la grazia catartica... (per ulteriori info clicca sulla coppertina)

Vincenzo Santoro

LE CUDDHRURE, STORIA E TRADIZIONE

Le “cuddhure”, dal greco kollura - corona, originariamente aveva solo forma circolare che simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova, la rinascita. Fatto di pasta del pane, che è un elemento fondamentale nella religione cristiana, rappresenta il corpo di Cristo. Pertanto essendo un pane rituale non si pretendeva dovesse avere un sapore particolarmente grato, era solo leggermente insaporito dall'aggiunta di olio e pepe. Praticamente un tarallo intrecciato con al centro un uovo con il guscio che rappresenta la rinascita. L’uovo è il simbolo universale di fecondità e resurrezione perché: è ricettacolo di vita, permettendo la conservazione della specie, è l'emblema della perfezione divina non avendo spigoli quindi ne principio ne fine e somigliando ad un sasso appare privo di vita, così come il sepolcro di Gesù. Dentro l’uovo c’è però una nuova vita pronta a sbocciare. In questo modo, da ciò che sembrava morto, nasce una nuova vita ecco che l’uovo diventa il simbolo della resurrezione. Sono un tipico dolce pasquale di antichissima origine e diffuso in tutta la Puglia dove, da paese a paese, assume le più diverse denominazioni. Una volta durante la Quaresima si osservava uno stretto digiuno, era severamente vietato “‘ncammarare*”, ovvero consumare carne, uova e persino formaggio, così, quando le campane annunziavano la Resurrezione, si rompeva il digiuno mangiando questa sorta di ciambella con le uova.
Col tempo siccome si regalavano ai bambini le forme cambiarono, prendendo la forma de' "lu panarieddhru" (castino), "la pupa" (la bambolina) o la colomba e si cominciò a farla con l'impasto dei biscotti tradizionali "le paste", decorate da zuccherini colorati. Oggi le versioni sono due, a pasta dolce e a pasta salata, con forme sempre più belle ed elaborate, vengono regalate per augurare abbondanza e fertilità.


*Ncammarare = mangiare di grasso nei gioni in cui la Chiesa prescrive l'astinenza dalle carni durante la quaresima. Deriva dal latino "commĕrēre": commettere un peccato, rendersi colpevole.


Antonio D'Ostuni

Li Sabburchi

La tradizione salentina vuole che l’altare della reposizione, riproduzione del sepolcro, sia addobbato in modo solenne con composizioni floreali, drappi, luci, nonché con i germogli di grano, "li Sabburchi", simbolo della resurrezione di Cristo: quei sottili fili d’erba gialla che racchiudono tutto il mistero della passione e della resurrezione di Nostro Signore. “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.” (Gv 12, 24), la rinascita.
Questi germogli devono essere chiari, di un colore giallino, quasi simile a quello del grano, dal quale si trae la farina e quindi l'ostia che simboleggia il corpo di Cristo.


La stessa preparazione dei germogli, riporta alla simbologia della Risurrezione. Affinché acquisiscano il loro caratteristico aspetto, infatti i piatti, una volta si usavano "li piatti te smaltu", in cui sono stati deposti su uno strato di cotone imbevuto di acqua, i semi dovranno riposare al buio assoluto, per circa 25 giorni e cresceranno fino al giovedì Santo, quando vengono abbelliti con fiori, nastri, immaginette sacre e posti sugli altari della reposizione, questo passaggio dal buio alla luce della Resurrezione di Cristo.


Antonio D'Ostuni.

In Evidenza

Un importante libro per il movimento di ripresa della cultura popolare salentina.

 Il ballo della pizzica pizzica, Franca Tarantino, Vincenzo Santoro, Itinerarti 2019

Divenuta tratto culturale distintivo, il ballo della pizzica pizzica continua ad affermarsi come pratica estremamente attrattiva: modalità di espressione personale e di socializzazione, fonte di ispirazioni artistiche e identitarie e occasione di promozione territoriale. Distinguendo le diverse forme coreutiche salentine si descrivono, anche con l’ausilio di immagini, le posture e le dinamiche della pizzica pizzica in un prezioso compendio per chi voglia conoscere e praticare il ballo popolare della festa. Nell’intersezione di storie di vita e percorsi professionali si ricostruiscono vicende e fortuna di questa danza poco documentata, reinventata, restaurata e globalizzata, dalla consuetudine comunitaria alla sua declinazione festivaliera, attraversando i mutamenti dei contesti culturali di riferimento...

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News

E' stato pubblicata la scheda scientifica della Quercia Elegante di Carpignano (quercus x caroppoi) da parte dell'Orto Botanico presso Uni Salento: 

Odino nelle terre del rimorso

Una dettagliata ricostruzione, della ripercussione sul territorio, della permanenza dell'Odin Teatret a Carpignano è fornita dall'ultimo libro di Vincenzo Santoro (Responsabile delle tradizoni popolari all'ANCI di Roma, musicologo e appassionato ricercatore della tradizione popolare salentina).

Odino nelle Terre del Rimorso - Eugenio Barba e l'Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-75) edizioni Squilibri

La Ronda è la massima espressione odierna della tradizione popolare...

Scherma e ballo popolare